Archivio di quartiere – storia n. 8


La scuola. Non ci sono andato per niente. Entravo dal portone principale e uscivo da quello secondario. Perché dove abitavo da bambino, vicino alla chiesa Russa, c’era un giardino, proprio nel cortile interno del palazzo dei Mutilati. Il palazzo era stato costruito per alloggiare i militari vittime di incidenti di guerra. Nelle immediate vicinanze c’era l’officina del signor Aceto, che si occupava della riparazione delle biciclette. E dDa via de Ruggero partiva un viale con alberi, non c’erano le auto parcheggiate.
Si accedeva nel giardino condominiale da un portone grande. Ho abitato lì fino a quando mi sono sposato.
Sono cresciuto in quel giardino. Lì ho stretto le prime amicizie. Nascevano in modo naturale, spontaneamente.  Gli amici prima li trovavi per strada, oggi li trovi sul cellulare. Si aveva la possibilità di parlarci, con l’amico, conoscerlo, capire se era una brava persona. Bisogna sempre augurarsi di trovare un bravo amico.
Si giocava tanto. Si facevano i giochi dell’epoca, li inventavamo noi. Si costruivano spade, fionde, armi che in alcuni casi potevano essere pericolose. Io preferivo giocare con le palline, giocare ad indovinare l’identità dei giocatori, o  giocare “cu vruzz”.
Poi nel giardino giocavo sempre a calcio. Da mattina fino a mezzanotte, giocavo a calcio con mio fratello grande.

Quando iniziai ad andare a scuola, mi ritrovai tra libri e penne. Questo cambiamento mi spaventò moltissimo.
Frequentavo la Carlo del Prete, andavo a scuola un mese di mattina e un mese di pomeriggio. Le classi erano divise in maschili e femminili.
All’inizio a scuola ci esercitavamo nel disegno di fiorellini, di bastoncini e di quadrettini. Quando iniziammo a studiare storia, dovevo studiare i primitivi, leggere e raccontare cosa capivo, mi sono spaventato. Ho iniziato a marinare la scuola. Non riuscivo ad impegnarmi. Mi distraevo perché volevo stare con i miei amici a giocare e non studiavo.
Quando mio padre Giuseppe lo scoprì mi fece una caricata. Poi mi chiese se volessi continuare ad andare a scuola o lavorare.
Decisi di iniziare a lavorare. Solo dopo ho rimpianto di aver lasciato la scuola ed ho capito di aver perso una grande occasione.
A 8 anni ho iniziato a lavorare come pescivendolo. Mio padre lavorava in via Monte Grappa, aveva una bancarella per la vendita del pesce. Aveva preso la licenza negli anni ‘50.
Non ho ricevuto uno stipendio fino ai 18 anni. Ho lavorato ogni notte, al freddo. Alle nove- dieci di sera iniziavamo a lavorare. Andavamo a comprare il pesce e tonavamo a casa la mattina seguente.

Uscivamo la sera alle 10.00 per non rischiare di non trovare la merce.  Andavamo al mercato del pesce che si trovava di fronte al Teatro Margherita. Il mercato coperto poi si è spostato vicino allo stadio della Vittoria.
Il pesce, però, si comprava alle 6.00. Nell’attesa si studiava la situazione, si aspettava il momento giusto per fare l’affare quando c’era tanta gente.
La sera c’era un gran assortimento di pesce, c’era maggiore possibilità di acquistare merce di buona qualità in maggiore quantità. Se si arrivava troppo tardi si rischiava di trovare solo lo scarto, anche ad un prezzo maggiorato. Mio padre comprava pesce in blocco “a muzz”: merluzzi, polpi, spigole, orate, alici.
Il pesce che compravamo più spesso era però il pesce azzurro. La nostra bancarella era specializzata nel rifornire sgombri, sarde, alici, vope. Le persone “iessn matt” per il pesce azzurro, che costava anche poco! Si vendeva a 500 lire, mille lire al kilo ed era apprezzato per le sue qualità nutritive.
Le signore si alzavano la mattina presto e compravano grandi quantità di pesce a poche lire, potevano fare la spesa e sfamare tante bocche.
Si ritornava tardi. Poi si faceva colazione la mattina con “pan e pomdor, pan oggh e sal e u uev sbattut”.
 
Lavoravo solo io con mio padre, io ero il braccio e lui era la mente. Mio padre era molto esperto nell’acquisto della merce ma non aveva abilità con il cliente. Non voleva che i clienti toccassero il pesce, spesso l’ho sentito arrabbiarsi dicendo “oh, non si metten l man!”. Non ci si può relazionare così con i clienti, li perdi.  Lui aveva ragione, era giusto per l’igiene, ma il cliente l’hai perso. Io lo chiamavo babbo. Gli dissi di non rapportarsi in quel modo con i clienti. Ma non era colpa sua. Non capiva l’importanza di questa cosa.
Tutti gli amici della scuola, con i loro genitori iniziarono a comprare il pesce da noi. Mio padre capì che ero la sua forza. Bisogna essere svelti con i clienti per sopravvivere, avere una bella parlantina, essere gentile. E io avevo queste qualità. Parlavo sempre in dialetto, ero spigliato e simpatico.
Ci siamo così fatti conoscere per il nostro carattere caloroso.
Io dovevo vendere. Mio padre vedeva questa grinta in me.  La merce non si può conservare e io mi adoperavo per venderla tutta entro la fine della giornata.  Così mio padre comprava sempre più pesce e diceva “ m’a spiccià tutt”. 

C’era amore e passione per questo lavoro.  Ho dovuto lasciare questo mestiere a malincuore, dopo trent’anni, quando è morto mio padre. Il mestiere l’ho imparato osservando. “Vid e ‘mbar! ” Mi diceva che mestiere si ruba con gli occhi. Io l’ho imparato a metà. Ho imparato a vendere il pesce ma non a comprarlo.
Mio nonno Francesco aveva fatto il pesciaiolo. Mio padre aveva seguito mio il nonno, come avevo fatto io.
Io non ero bravo nella valutazione del pesce, non sapevo dargli un prezzo e non sapevo concordarlo. Andavo a fiducia.
Mio padre è morto nel 1996. Nel 1997 ho smesso di fare il pescivendolo.

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GIUSEPPE R., PADRE DI ANTONIO R., AL MERCATO DI VIA MONTEGRAPPA. 1970

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